20 Aprile 2024
Il pensiero
Giambattista Vico è fortemente legato alla cultura umanistica (per la sua stessa preparazione retorico-letteraria) quale si era venuta arricchendo nell’ambiente napoletano della seconda metà del Seicento; qui, avevano trovato diffusione le grandi opere degli autori che meglio rappresentavano la cultura europea del secolo: Bacone e Grozio, Descartes e Gassendi, Hobbes e poi ancora Spinoza e Bayle. Le idee e polemiche della sua epoca sono ben presenti negli scritti di Vico: nelle sei orazioni inaugurali e, soprattutto in quella “De nostri temporisstudiorumratione”, interviene nella polemica anticartesiana difendendo il valore dello studio delle lettere e della storia, delle discipline morali e civili, polemizzando contro il primato che Cartesio aveva riconosciuto alle scienze matematiche e fisiche. Temi questi che vengono approfonditi nel “De antiquissimaItalorumsapientia”. In quest’opera, infatti, partendo da un’analisi di termini latini, Vico vuole ritrovare in essi i principî dell’antica “sapienza italica” e, anzitutto, i fondamenti di una metafisica quale presupposto della fisica. Contro la riduzione cartesiana della materia a estensione, Vico svolge la dottrina dei corpi come costituiti di punti metafisici indivisibili, centri di forza (conati). Nella stessa opera, Vico rifiuta il “cogito” come fondamento di scienza, perché esso non esce dal piano della certezza soggettiva; cheper Vico è criterio di verità e fondamento di una vera scienza Vico la “conversione” del vero con il fatto (verum et factum reciprocanturseuconvertuntur), nel senso che il principio e la regola di verità sta nel conoscere la genesi delle cose e quindi nella capacità di produrle. Ciò posto, Dio solo conosce le cose della natura perché ne è il creatore; l’uomo non può attingere siffatta conoscenza, ma semplicemente potrà conoscere gli aspetti esteriori delle cose, non la natura o causa che ne costituisce l’intima struttura; potrà invece pienamente conoscere le matematiche perché qui l’uomo è il creatore del “mondo di figure e numeri” di cui esse sono costituite. Le matematiche quindi, per il loro carattere convenzionale e arbitrario, sono perfettamente conosciute dall’uomo ma per sé stesse non possono ritenersi costitutive della realtà esterna. Il criterio della “conversione” del vero con il fatto, che affonda le sue radici nella cultura del Seicento europeo, avrà sviluppi assai più ampî nelle successive opere: accostatosi attraverso Grozio e la tradizione erudita antica e moderna ai problemi della storia, Vico si avvia a costituire una nuova scienza, la scienza appunto dell’accadere storico. Questa è l’ispirazione centrale della Scienza nuova: una scienza della storia è possibile perché il mondo della storia è fatto dagli uomini, per cui se ne possono ritrovare i principî e le leggi “entro le modificazioni della nostra medesima mente umana”. Il “mondo delle nazioni o sia il mondo civile” diviene così l’oggetto proprio della “scienza nuova” che unirà filologia e filosofia, cioè il “certo” offerto dall’erudizione storica con il “vero” della filosofia che indica le idee e leggi eterne che governano la storia. Compito della filosofia sarà dunque quello di contemplare “questo mondo delle nazioni nella sua idea eterna”, in stretto rapporto con la verifica, che potremmo dire “sperimentale”, data dalle ricerche della filologia. Così la “nuova scienza viene ad essere ad un fiato una storia delle idee, costumi e fatti del genere umano”. La storia si svolge secondo Vico scandita da una successione di momenti che riproducono le tappe dello sviluppo stesso dell’uomo: come in questo vediamo un succedersi di senso, fantasia e ragione, così nella storia si succedono l’età degli dèi, degli eroi e degli uomini. La prima è l’età in cui gli uomini erano come “bestioni” in una condizione di vita ferina, da cui, lentamente, sotto l’incombente e ostile realtà naturale, uscirono scoprendo la divinità, le leggi morali, e quindi istituendo i primi legami sociali. Inizia così il processo di incivilimento, fino all’età della dispiegata ragione, l’età degli uomini: processo che è guidato dalla provvidenza secondo disegni grandiosi che sovrastano i particolari fini perseguiti dagli uomini; da questo punto di vista la scienza nuova si vuole configurare come “teologia civile ragionata della provvidenza”. Particolare importanza assume, nel quadro storico tracciato da Vico, lo studio delle prime fasi della vita degli uomini dalle quali resta escluso il popolo ebreo quale protagonista della storia sacra, guidato e aiutato da Dio: i primitivi “bestioni” che lentamente, attraverso istituzioni religiose e civili, raggiungono forme di vita sociale, prima di conquistare la ragione “dapprima sentono senza avvertire, poi avvertono con animo perturbato e commosso”. Vico dà valore e significato positivo a queste prime fasi della storia umana, momenti aurorali, primitivi, barbari, che ricordano la fanciullezza dell’uomo: furono i tempi della nascita del linguaggio, della piena espressione della “fantasia”, della creazione dei grandi miti e della poesia. “I primi popoli furono poeti, i quali parlarono per caratteri poetici”: il linguaggio, inteso come creazione ed espressione della fantasia (non dunque artificio), è essenzialmente poetico perché quegli antichi uomini si esprimevano con immagini e metafore; ogni espressione della loro vita è poetica, cioè poetica è la teologia, la fisica, la politica degli antichi “barbari”, forme di “sapere” intessute di “universali fantastici” o “caratteri poetici” che sono alla base dei grandi miti dei popoli primitivi. L’età eroica, cui soprattutto si riferiscono le considerazioni di Vico sulla fantasia, il linguaggio, la poesia, trovò la sua massima espressione in Omero: i poemi a lui attribuiti, soprattutto l’Iliade (che Vico considera anteriore all’Odissea), sono l’espressione del popolo greco che narra la sua storia. All’età degli dèi e all’età degli eroi succede l’età degli uomini, “nella quale tutti si riconobbero essere uguali in natura umana” che si esprime nella “dispiegata ragione”. Ma la storia umana non realizza un processo lineare: dalla “dispiegata ragione” gli uomini cadono nella “barbarie della riflessione” fino alla negazione di Dio: così gli uomini ritornano in una nuova barbarie da cui ricomincia un nuovo “corso” della storia. Esempio di questa caduta è il Medioevo, “nuova barbarie”, con il suo lento riscoprire linguaggi, miti, organizzazioni civili: di quest’età è massima espressione Dante, il “toscano Omero”, che la rispecchia nel suo poema. Si compie così in corsi e ricorsi, che non comportano ripetersi di accadimenti individuali ma ritorno di analoghe forme storiche, la storia delle nazioni in cui sempre “architetto” è la divina provvidenza.

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